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L'Espresso Article on Eritrean Railway

From L'Espresso December 7, 2000.  Scans of original article near bottom.  Text from L'Espresso Website.  Images from Renato Gaudio's scans of article.

                             A ZONZO PER L'ERITREA SU UNA VECCHIA  FERROVIA ITALIANA

Massaua
express
RITMI LENTI.
di Guglielmo Winspeare-foto di Jens Rötzch Ostkreuz / Neri
 Montagne. Gole. Deserti. Un viaggio da Far West su un  trenino degli anni Trenta. Sfiorando monasteri del Cinquecento. Schivando branchi di cammelli. Gustando  l'antico rito del caffè. 114 chilometri attraverso i miti di un'Africa che resiste alla modernità

«Ogni volta che potevo, scappavo di casa la mattina e mi infilavo sul treno per Massaua. Passavo una giornata a  riempirmi la faccia e i vestiti di fumo e tornavo a casa felice,  anche se i

miei spesso mi rimproveravano. Il treno e la fornace della locomotiva mi piacevano molto e pensavo di fare il macchinista, allora». Quell'avventura che il bambino di undici anni Isaias Afeworki, oggi presidente dell'Eritrea, racconta con occhi sognanti, da pochi mesi è di nuovo a portata di mano. Il treno è rimasto fermo per 26 anni, dal '74, dopo l'ultimo viaggio di Mengistu, quando era appena diventato dittatore in Etiopia. Oggi, come d'incanto, un gruppo di pensionati delle Ferrovie eritree - età media 68-74 anni - è stato riassunto in servizio dal governo ed ha
 
cominciato a ricostruire dal nulla, pezzo per pezzo, bullone per bullone, la vecchia ferrovia italiana che collegava Asmara al porto di Massaua: 114 chilometri tra colline e cime montuose, vallate,
deserto e zone litoranee, con soluzioni ingegneristiche ed architettoniche di grande arditezza, specie lì dove erano necessari 
arcatee ponti lunghi varie decine di metri.

Le locomotive sono Ansaldo e Breda degli anni 1935-1938 ed hanno un fascino indescrivibile, con le loro forme più da fantasie del vecchio West che da mezzi di trasporto efficienti. Eppure sono proprie quelle necessarie per scavalcare montagne e gole e scendere o salire - la velocità

 è una variabile indipendente - dal livello del mare a 2.394 metri, l'altezza di Asmara. I binari sono ancora oggi della larghezza di 95 centimetri, quella ufficiale delle ferrovie italiane del secolo scorso.

 L'appuntamento di undici pazzi, giornalisti e no, sette tedeschi, due italiani, un francese, un americano, riuniti ad Asmara dal corrispondente dello "Spiegel" Volkhardt Windfhur, al Cairo da 40 anni e fondatore dell'utopica Associazione degli amici delle Ferrovie egiziane e arabe (Frea) è alla stazione della capitale eritrea, la mattina alle 7,con un gruppo di dirigenti ferroviari. Ma di treno non se ne parla. Bisogna prendere tassì per arrivare 41 chilometri più a sud, a Embatkalla, dove c'è un macchinista che aspetta. Qualcuno è contrariato, qualcun altro sonnecchia e tutti si stringono l'un l'altro nelle Mercedes per riscaldarsi nella fredda mattinata. Sul fianco della collina si intravede un sentiero ripido: «Di là si va al monastero di Debre Bizen, con monaci che custodiscono manoscritti del 1500, testi sacri», spiega Windfhur, ed aggiunge: «ma le donne non sono ammesse». Alle 7 di mattina si preferisce continuare verso la stazione dove ci aspetta il treno.

 Nel posto dal nome impossibile un 

 signore molto gentile indica una strada che finisce nel fianco della collina e poco più avanti si intravedono i binari, che hanno la stessa sorte.  Man mano che si procede si intravede la sagoma bianca di un enorme carro ferroviario diesel, che romba al nostro arrivo. Sui mozzi è leggibile, ridipinto di fresco, un marchio familiare, quello della Fiat.

Si sale sui predellini e si prende posto su una carrozza sfinestrata, con sedili di legno appena rifatti. Il direttoregenerale delle ferrovie eritree, un gigante molto abbronzato, con un baffo simpatico, Giorgis Teklemikael, sotto i 50 anni, comincia a raccontare quanto è stato faticoso recuperare binari dalle trincee di guerra sparse per tutto il paese e fabbricare nella fonderia della stazione i bulloni, le paratie, le bronzine e tutte le altri parti necessarie per far marciare quei pezzi da museo. C'è una strana sensazione: il carro motore è attaccato davanti a quello viaggiatori e davanti ancora c'è la montagna. Si scopre così che per undici chilometri serpeggianti tra le montagne, cioè fino alla stazione di Ginda, quel piccolo convoglio viaggerà sempre a marcia indietro ed il povero macchinista, un giovane dall'aria sveglia, sarà costretto a star sempre con la testa girata, per controllare che i binari siano sgomberi, pronto ad intervenire in caso di difficoltà.

Ma nessuno si preoccupa e la scampagnata, con l'aria che si sta riscaldando, è punteggiata da gesti di saluto a contadini o operai che sono al lavoro lungo
a strada ferrata o nei piccoli appezzamenti di terreno coltivabile strappato alla montagna. In un punto del paesaggio più suggestivo, su tornanti che si snodano come spire di un grande pitone, il macchinista si  ferma per far ammirare la prospettiva ed il francese del  gruppo, Yves, decide di fare uno scatto panoramico. Non si accorge che il convoglio sta ripartendo e dopo un po', come   nelle migliori gag comiche, grida verso gli occupanti del convoglio, e lo insegue lungo il fianco l della montagna, una ventina di metri più in alto correndo a rotta di collo, ma solo per impressionare: il treno non supera i sei chilometri l'ora. La svolta avventurosa è a Ginda: una vera signora locomotiva, Ansaldo 442.54 del 1938 («la più potente ed efficiente che abbiamo riattivato», sussura Giorgis), sbuffante, ci aspetta come se scalpitasse dal desiderio di muoversi. Dietro sono attaccati vari vagoni, tra i quali uno bianco e celeste, sul fianco c'è 
scritto "III class": ci ospiterà per i 73 chilometri fino a Massaua. Ci vorranno 3 ore e 19 minuti per percorrerli, ma passeranno senza difficoltà: tra una sosta per fotografare la successione di tunnel nei quali i militari eritrei si nascondevano durante la trentennale guerra di liberazione, ed  un caffè eritreo preparato con grande perizia da due ragazze allegrissime nel vagone, il percorso procede senza alcuna difficoltà. Il rito del caffè in viaggio richiede qualche attimo di attenzione: le due giovani donne indossano t-shirt bianche con il disegno di un treno e la scritta "Rebirth of Eritrean  Raylwais". Si parte dalla tostatura del caffè, lentissima, su un fornello a spirito che poco a poco richiama tutto gli occupanti del convoglio per l'aroma che si sprigiona. Si macina a mano e viene versato in una bottiglia in terracotta dal collo lungo, nella quale poi si aggiunge l'acqua bollente. Solo dopo variminuti dalla bottiglia, opportunatmente filtrato, il liquido nero passa in microtazzine di ceramica che vengono servite insieme con dolciumi locali e frutta secca. Tutto avviene con un accompagnamento di musiche tipiche e canzoni moderne, diffuse da un radio-registratore di proprietà di una delle due caffettiere.
Il treno rallenta improvvisamente, fino a fermarsi. Ad una stazione intermedia qualcuno si arrampica sulla locomotiva e sì, è proprio vero, come nei film di cen'tanni fa le locomotive hanno bisogno di acqua ed a versarla nel serbatoio c'è proprio una fontana di quelle a pipa ricurva, alta quattro  metri, azionata con una leva a stantuffo. Qualche chilometro più avanti un'altra sosta, perché un mandriano
 con quattro cammelli carichi di legna secca sta scendendo dalla montagna e rischia di precipitare sui binari. I macchinisti lo aiutano a  passare dall'altra parte.

Quando si arriva in pianura si raggiunge l'incredibile traguardo dei 60-70 chilometri orari e sembra di essere su un super - rapido mentre scorrono intorno distese aride intervallate da aree verdeggianti e corsi secchi di ruscelli e fiumiciattoli. «Lì, su quella cima», aveva detto prima poco prima Giorgis, «c'era la trincea più importante, che durante la guerra ci ha consentito molte azioni vittoriose contro i nemici.  È lì che abbiamo recuperato il maggior numero di putrelle», e mostra un piccolo altopiano brullo, che ricorda da lontano la
 Murgia pugliese.

Più avanti, alla stazione di Mayatalle, una lapide del "27mo reggimento di fanteria'', del 1897, ricorda una tappa della costruzione della ''Ferrovia eritrea'' ed è facile immaginarsi qualche ufficialetto italiano di prima nomina del genio ferrovieri,

VECCHIO BULLONE

 
 circondato da dubat e ascari, indaffarato e sudato alle prese con i binari che vanno allineati e con il sole che batte inesorabilmente sul casco coloniale.

 L'avventura si conclude a Massaua. La città, poco alla volta, si è ammodernata e la gente non ha la disponibilità curiosa e gentile di chi vive nascosto tra le colline e la montagna. Gli abiti sono quelli normali e la caratterizzazione geografica più marcata viene dall'antico palazzo dell'imperatore di Etiopia, Hailè Selassiè - anche lui viaggiatore della ex-ferrovia italiana per ben tre volte, in una carrozza reale che non si sa dove sia
finita - riconoscibile per la sua cupola semidistrutta da colpi di mortaio, su una specie di penisolotto in riva al mare prima di arrivare al porto mercantile. Sembra un po' fuori contesto tra le barche che la circondano e le strutture portuali poco lontane, così come fuori contesto appare l'intero paese, dilaniato da necessità belliche che dovrebbero essere inattuali. Con un occhio che recupera dal passato valori della storia: non solo la ferrovia italiana «smantellata dagli inglesi e distrutta dagli etiopici», dicono gli asmarini, ma anche un cuore anni '30 della capitale che viene restaurato in un progetto di "cultural heritage" da proteggere e che include 400 palazzi, molti art deco: dal vecchio "Alfa Romeo" alla stazione di servizio "Tagliero" , al palazzo delle Assicurazioni
Generali Venezia, a quello superbamente riabilitato dalla Banca Mondiale.

                          (07.12.2000)
Scans of original article:
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Because of the layout of the magazine, there was no article on pages 244, 246, 248 and 250.

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